logo - palazzo dei diamanti

Toti Scialoja

Ferrara, Palazzo dei Diamanti

16 giugno – 1 settembre 2002

LA MOSTRA

Antonio Scialoja nasce nel 1914 a Roma, dove muore nel 1998. La sua propensione artistica si manifesta assai presto nell’esercizio della poesia, del disegno e dell’illustrazione. Interrotti gli studi in giurisprudenza, nel 1937 decide di dedicarsi esclusivamente alla pittura, incoraggiato da Corrado Cagli, che aveva conosciuto alla Galleria della Cometa.
Nel 1939 un suo disegno viene accettato dalla giuria della Quadriennale romana, ma l’esordio vero e proprio risale al 1940, quando espone trenta disegni alla Galleria Genova del capoluogo ligure.

Nel dopoguerra, insieme a Ciarrocchi, Sadun e Stradone, fa parte del gruppo dei “quattro artisti fuori strada”, presentato da Cesare Brandi alla Galleria del Secolo di Roma nel marzo del 1947.

Dal marzo del 1954 inizia a scrivere, su fogli dattiloscritti, il Giornale della pittura, un intenso diario intellettuale su cui annota, soprattutto, la crescita del suo pensiero estetico. Abbandonati i modi espressionisti degli anni Quaranta, la pittura di Scialoja attraversa, quell’anno, una brevissima stagione neocubista, e, a partire dai primi mesi del 1955, diviene definitivamente astratta.

Nel 1957 Scialoja elabora la sua particolare tecnica dello “stampaggio”, con la quale dà figura alle “impronte”, una delle forme maggiori dell’arte astratta europea dei tardi anni Cinquanta e dei Sessanta. Fondamentali per le vicende artistiche di Scialoja, sono i due viaggi compiuti in America, il primo nel 1956 e il secondo nel 1960, e il lungo soggiorno a Parigi, tra il 1961 e il 1964.

Gli anni Settanta, e il primo avvio degli Ottanta, segnano per Scialoja un periodo di crisi e di scarsa operosità artistica che riprenderà, nuova e intensa, solo a partire dal 1983.
Oltre che pittore Scialoja è stato poeta, scrittore, scenografo e docente all’Accademia di Belle Arti di Roma, di cui fu direttore per un lungo periodo (tra i suoi allievi vi furono, tra gli altri, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Giosetta Fioroni e Mario Ceroli).

 

Sala I

In questa prima sala si sono volute documentare, in brevissima sintesi, alcune fra le tappe cruciali dell’esperienza di Toti Scialoja: dalla loro lettura ravvicinata si possono cogliere i motivi di persistenza di un’idea della pittura che rimane strettamente coesa, al di là delle successive acquisizioni formali.

Ad accomunare questi dipinti è il tema centrale del rapporto tra fondo e figura, tra le forme e il grembo che le accoglie: in tutte e quattro le opere il fondo si alza a parete, diventa un gorgo senza fughe possibili, una forra senza orizzonte su cui s’accampa l’immagine.

In Tre crani e in Pollo spennato,riferibili entrambi all’immediato dopoguerra, quando Scialoja è ancora legato all’espressionismo della Scuola Romana, il rapporto tra fondo e figura si gioca interamente sulla lunga, nervosa, filante corsa del pennello. Pollo spennato fu esposto, tra l’altro, nella mostra dei “quattro artisti fuori strada”, patrocinata da Cesare Brandi, che si tenne nel marzo del 1947 alla Galleria del Secolo di Roma.

Ne La caccia n. 4 del 1955, viene meno la centralità dell’immagine, che è invece frammentata, scheggiata, lacerata dall’emissione di luce che trapela lenta, come giacesse annidata nella coltre del colore e di lì si divincolasse verso la pelle del dipinto. Il registro cromatico ripete però il timbro dominante dei dipinti precedenti: allineato, nell’uno e nell’altro caso, sulla declinazione di terre sporche e rugginose.

Alla fine degli anni Cinquanta data infine Ripetizione ex ira, un’ampia tela in cui l'”impronta”, protagonista assoluta della stagione matura della pittura di Scialoja, ha assunto la sua forma definitiva di figura isolata in un campo atto a registrarne la silenziosa apparizione. La superficie della tela è divenuta, come ha scritto Scialoja nel 1957, una “presenza incombente, incancellabile della coscienza come dimensione fisica”, luogo che accoglie tutta l’esistenza, intesa come successione di episodi, eventi, tempi.

 

Sala II e III. Lo straccio, il gesto (1955-57)

 

Nei primissimi mesi del 1955 si apre la stagione perfettamente matura della pittura di Scialoja, divenuta interamente astratta dopo il periodo neocubista dell’anno precedente, e affidata esclusivamente alle nozioni di automatismo, di cecità e di gesto.

All’inizio dell’anno Scialoja abbandona il medium tradizionale del pennello, e inizia a dipingere, come annota sul Giornale della pittura, “con lo straccio intriso di colore molto liquido, ora a modo di spugna, ora assottigliando il panno e riducendolo un solo filo”. La scelta di abbandonare il pennello, così “ubbidiente al polso”, così carico di intenzione e di consapevolezza del proprio destino, provoca in Scialoja nuove e fondanti riflessioni. È adesso, per lui, un premere “direttamente con la mia vita su tutta la superficie della tela”, un momento in cui la pittura diventa confessione totale della propria esistenza.

Fra il 1955 e il 1956 Scialoja compie un’altra svolta dal punto di vista tecnico: sollecitato da Alberto Burri, abbandona la tradizionale pittura a olio o a tempera e comincia a usare sabbie e polveri aggregate da un collante vinilico, che lo obbliga ad agire rapidamente sulla tela, distesa a terra e non più sul cavalletto.

Risalgono a questo periodo i dipinti esposti qui e nella sala successiva, animati dai colpi automatici del segno nero che percuote ovunque la superficie della tela, e caratterizzati da una gamma cromatica ridotta a poche inflessioni di neri, di biacche, di ocre.

È in questo momento di continuo e intenso sperimentare che Scialoja si avvicina maggiormente agli artisti della Scuola di New York, che avrà modo di conoscere personalmente durante il suo primo importante viaggio negli Stati Uniti, compiuto nell’autunno del 1956. Dall’America Scialoja torna consapevole di aver appreso una incomparabile “lezione di libertà”, una libertà che intende ora come rischio totale, intero coinvolgimento, identità ultima fra vita e pittura.

 

Sala IV e V. Le “impronte” magmatiche (1957-58)

 

“Preparava la tela a terra – non voleva altro orizzonte. Prendeva un foglio di carta leggera, oleata, su cui la materia cromatica avrebbe aderito, senza lasciarsi assorbire. Questo foglio duttile, sottile quanto una pelle, se lo accartocciava stretto, in fretta, come un fazzoletto fra le mani. Steso di nuovo, a terra, e lisciato delle rughe più grossolane, lo riempiva di pennellate rapide, eloquenti. Poi, lo rovesciava sulla tela, premendo, battendo, gridando, una due tre cinque volte: fino all’esaurirsi del colore, fino al margine della tela, fino al cedimento del supporto fragile.”

Così Gabriella Drudi ha raccontato il procedimento delle “impronte”, tracce di colore deposto, stampato da una superficie all’altra, dalla carta alla tela: una tecnica pittorica che fu la più importante della stagione matura di Scialoja.

Le “impronte” nascono a Procida, durante l’estate del 1957, per un colpo di vento che, secondo il racconto che ne ha dato Scialoja, avrebbe rovesciato sulla tela bianca una carta casualmente già gravida di colore. Ma all’origine di questo modo così anticanonico di pittura sta quel bisogno, già da tempo sentito da Scialoja, di “stampare”, di “imprimere” sulla superficie la traccia più vera, più intera di sé.

Nei primi dipinti costruiti unicamente con la tecnica dello “stampaggio”, tra la fine del 1957 e l’inizio del 1958, Scialoja, spinto dall’ansia di imprimere tutto se stesso sulla tela, stende il colore, con colpi frequenti, automatici e ossessivi, fino a saturare tutta la superficie, inibendo qualsiasi percezione di rapporto tra il fondo e la figura.

È questo il momento in cui la pittura di Scialoja, oltre a imparentarsi con alcune esperienze dell’espressionismo astratto americano, testimonia qualche limitata tangenza con l’informale europeo. Con le “impronte”, Scialoja realizza quella prossimità assoluta fra vita e pittura, quella compresenza nell’opera di istinto e pensiero che da anni insegue.

 

Sala VI, VII e VIII. Le “impronte” serializzate (1958-60)

 

“Dato che il mio gesto è quello dello stampare, il ritmo di tale gesto non potrà essere che quello della ripetizione; e ripetere vuol dire sovrapporre: sovrapporre in modo sempre uguale cose sempre diverse.” (Toti Scialoja, «Giornale della pittura», marzo 1958).

Nel corso del 1958, e infine più decisamente a muovere dal 1959, si apre un secondo momento della stagione delle “impronte”, protratto da Scialoja per molti anni: l'”impronta” si isola, si raccoglie in se stessa, si fa “figura” contro uno sfondo che non è più magmatico come nelle opere precedenti. Ripetuta più volte, da sinistra a destra, adesso l'”impronta” lascia sulla superficie la propria traccia vieppiù smagrita, a scandire su quel campo che l’accoglie lo scorrere del tempo.

Le “impronte” non sono più sovrapposte, ma parallele, si dispongono in sequenza a intervalli regolari, realizzando inevitabilmente un ritmo, un’alternanza di pieni e di vuoti. “Superficie è forma se diviene ritmo”, scrive infatti Scialoja: lo spazio non si può dare disgiunto, o al di fuori del tempo. Il tempo è una sequenza di accadimenti scritti nel succedersi temporale della superficie, ciascuno dei quali serba memoria del precedente senza mai poter essere, rispetto a quello, identico.

Talvolta, come ad esempio in entrambe le versioni di Due orizzonti,quasi a preannunciare esiti di lì a poco realizzati, sono presenti delle vere e proprie cesure tra un’impronta e l’altra, “lunghi righi verticali”, come spiega Scialoja nel Giornale della pittura, “a loro volta impronte di corde tese sulla superficie, imbevute di colore e premute per lasciare la loro traccia”.

Anche il colore cambia rispetto alle precedenti “impronte” magmatiche: i rossi di fiamma, i rosa infinitamente incantati, e gli arancioni fluorescenti, lasciano il posto a una gamma ridotta di bianchi e di grigi, che svettano spesso sulle ocre sorde del fondo (Blue Moon).

 

Sala IX. Le ultime sculture (1989)

 

I quindici piccoli bronzi di Scialoja presenti in mostra sono frutto di alcune fervide settimane di lavoro risalenti alla primavera del 1989. Scialoja aveva scarsa fiducia che queste sue opere potessero essere accolte senza sospetto, né si curò in seguito di una loro organica diffusione. Rimaste di fatto per molto tempo sconosciute, ed esposte solamente in due marginali occasioni, a Roma nel 1991 e a Terni nel 1997, le sculture vengono adesso riproposte accanto ai grandi dipinti della fine degli anni Cinquanta e d’avvio dei Sessanta, a dimostrare quanto la loro immagine si leghi a quella formulata nella pittura, e, prima ancora, al pensiero sulla pittura di quegli anni.

I bronzi, la cui matrice era costituita da una poverissima creta Das, rappresentano una solidificazione nello spazio curvo e profondo dell’idea dell'”impronta”.

Già trent’anni prima, poco dopo aver ricevuto in dono il grande Mobile di Alexander Calder oggi esposto, Scialoja aveva avuto modo di riflettere sulle possibili trasposizioni in scultura delle idee pittoriche che egli stava maturando: “Lo spazio diventa tempo percorrendolo anche materialmente; il tempo diventa spazio solidificandosi anche materialmente […].”, scriveva infatti sul Giornale della pittura, “Il tempo creato dai rapporti, dalle relazioni formali dimensionali tra le parti della scultura diviene anche tempo esistenziale.” Scialoja non considerò mai quello della scultura un impegno secondario, né un’eccedente curiosità. In un’intervista rilasciata nel 1991, ricorda infatti come nell’estate che vide nascere le “impronte” avesse già tentato la scultura: “A Procida avevo fatto dei bassorilievi con materiali trovati riprendendo le scansioni delle mie impronte. La voglia di fare mi portò ad acquistare grandi blocchi di sughero che venivano venduti ai pescatori per le reti, ad andare da un fabbro ferraio per trovare antichi ferri e chiodi e inserirli in queste superfici di sughero creando ritmi plastici e cromatici.”

 

Sala IX e X. Da New York a Parigi (1960-64)

 

Nel marzo del 1960 Scialoja torna a New York, ove trascorre sei mesi lavorando intensamente in un loft di Greenwich Street. Ad affascinarlo sono soprattutto gli spazi della città, le sue atmosfere. I dipinti di questo periodo, tutti di grandi dimensioni, sono occupati da “impronte” giganti, incombenti, che si dispongono sulla tela come presenze pausate e silenziose, lontane dal furore e dall’empito cieco dell’action painting. Da un punto di vista formale, le opere newyorkesi segnano uno stacco deciso rispetto ai precedenti lavori: “Stacco nel senso della monumentalità e della essenzialità”, come spiega Scialoja a proposito di Manhattan. Le tele adesso non conoscono altri colori che il bianco, il grigio, il nero; solo in certi casi, come in New York nero (Senza titolo), affiora l’orma di un rosso annidato nel manto della pittura.

Nel febbraio del 1961, dopo aver trascorso alcuni mesi a Roma, Scialoja parte per Parigi. Qui rimane ininterrottamente, salvo alcuni occasionali rientri in Italia, fino al 1964. Frequenta le ultime lezioni tenute alla Sorbona da Maurice Merleau-Ponty, e da questa esperienza trae nuove convinzioni sul processo di serializzazione delle “impronte”. A intervallare il colore o a far corpo con esso intervengono adesso elementi materici quali la corda, la garza e le pagine di giornale (Anche niente), che evidenziano ancor più l’isolamento delle “impronte” e la loro reciproca, progressiva, incomunicabilità.

È proprio in questo momento, inoltre, che “entrano in scena i merletti delle tende e tendine tanto care ai parigini. Merletti, pizzi e ricami”, ricorda Scialoja, “che fantomaticamente mi riportavano all’idea ottocentesca e simbolista della città di Parigi. Li acquistavo ogni domenica al Marché aux puces”. L’inserimento di questi materiali segna una concessione alla grazia, alla dolcezza della memoria, ma al tempo stesso sommuove dal profondo il concetto di “impronta”, anticipandone il futuro esaurimento.

 

Sala XI. Dal 1963 al 1975

 

Tra il 1963, quando Scialoja è ancora felicemente operoso a Parigi, e il 1965, la stagione delle “impronte” serializzate giunge ai suoi ultimi esiti, nei quali sia le “impronte” pittoriche, sia gli inserti materici tendono ormai a racchiudersi entro porzioni verticali di spazio geometricamente ripartito.

Gli anni Settanta e l’avvio degli Ottanta segnano un tempo difficile per l’artista romano che, giunto al culmine della sua riflessione teorica sulla pittura, se ne sente quasi paralizzato, realizzando prevalentemente opere su carta, collages e acquerelli. Nelle rare tele dipinte in questo lungo periodo Scialoja ritorna al colore, un colore però che assume adesso un significato nuovo, funzionale al ritmo delle forme rettangolari che si spiegano lungo tutta la superficie del dipinto.

“Colore nella pittura”, recita un suo appunto del settembre del 1964, “bisogna usare il colore allo stesso modo con cui si dipinge una barca. La barca esiste già, già invecchiata, già sperimentata. Ora esiste la gioia di scegliere dei colori giusti, splendenti, soprattutto nuovi da sovrapporre a quelli già scoloriti e corrosi dal salso.” Scialoja, con parole che sorprendentemente sembrano alludere a Nero con blu e a Nero piccolo, eseguiti oltre dieci anni dopo, conclude: “Esaurito il giallo e il rosso ecco la scoperta del nuovo turchino nero e blu di Prussia, è come una iniezione vitale.

Il ritrovamento con occhi vergini di colori esaltanti e inediti. Sono sempre gli stessi ma è il cuore nuovo che li rinnova scoprendo il mistero di un accordo tra colori freddi o l’inserzione improvvisa di una striscia bianca o nera.”

In questo periodo di isolamento, di riflessione e quasi di volontaria segregazione dal mondo dell’arte – ma non mancano in questo tempo occasioni espositive di rilievo – Scialoja si dedica intensamente alla poesia, sua giovanile e profonda vocazione.

 

Sala XII. Dal 1983 in avanti, una nuova libertà

 

Dal 1982, anno di un breve viaggio a Madrid e di un incontro “folgorante” con la pittura nera della Quinta del Sordo di Goya, Scialoja dà inizio a una nuova stagione della sua pittura, caratterizzata dal recupero delle più importanti esperienze degli anni passati, prima fra tutte quella del “grande gesto libero e cieco” che aveva denotato il suo fare artistico fra il 1956 e il 1957.

Già nel maggio del 1979, del resto, Scialoja aveva registrato sulle pagine del Giornale della pittura il suo desiderio di “tornare al gesto, al gesto unico, al grande gesto automatico che annulli la negazione, che annulli l’altro da sé – la prigione […]. Tornare a una pittura che valga come finale scancellazione dell’inerte”.

Uno degli esempi aurorali e maggiori di questa nuova fase della pittura di Scialoja è San Isidro (49), un dipinto bislungo e luminoso, ritmato da fonde, cadenzate pennellate di un nero opaco e coprente, in cui Scialoja recupera la grande dimensione come un canone necessario alla nuova “libertà”.

Altro passo cruciale dell’ultima operosità di Scialoja è la nuova nozione di luce, che interviene nella seconda metà degli anni Ottanta resistendo nei Novanta, e che si impone come novità decisiva rispetto alla sua pittura più antica. Al 1985 data un lungo soggiorno in Sicilia, a Gibellina, durante il quale Scialoja, certo subendo anche la suggestione dell’accecante luminosità del luogo, sceglie la luce come elemento irrinunciabile delle sue nuove immagini: modo che, in varia forma, lo accompagnerà sino alla fine.

In questi anni tardi ed estremi, che Scialoja visse avendo la pittura come quotidiana compagna, è straordinaria la molteplicità delle sue tensioni ideative, mai stanche e mai ripetitive. È come se sentisse di poter adesso possedere unite quelle vocazioni di pittura che s’erano un tempo date in lui disgiunte: di stringere in mano assieme tutti i tesori che era andato, nei sessant’anni in cui fu pittore, svelando a se stesso.

 

Gli “amici americani”

 

Nel settembre del 1956, in occasione di una sua mostra personale allestita alla Catherine Viviano Gallery di New York, Scialoja parte per l’America, accompagnato da Gabriella Drudi. Qui ha finalmente modo di conoscere dal vero le opere della pittura americana, viste fino ad allora sui libri, o intuite ascoltando le parole dei numerosi artisti e critici statunitensi che avevano fatto di Roma la loro nuova casa o il luogo preferito dei loro soggiorni europei.

Tra gli eventi più importanti di questo primo viaggio in America è sicuramente l’incontro con la pittura di Arshile Gorky, l’artista di origine armena morto suicida nel 1948, uno dei padri riconosciuti della Scuola di New York. Scialoja vede le opere di Gorky al Museum of Modern Art di New York e in alcune importanti collezioni private, innamorandosene perdutamente. Dopo il rientro in Italia, a Gorky dedica un numero monografico della rivista “Arti Visive”, frutto dei suoi studi e dei numerosi appunti presi dal vero nell’autunno precedente. Di Gorky, Scialoja conservava tre disegni, oggi esposti al fianco di altre rare e preziose opere di artisti statunitensi donategli nel corso degli anni, in segno di stima e di amicizia. Tra queste, un dipinto di Cy Twombly, realizzato nell’estate del 1957 durante un periodo trascorso a Procida con Toti e Gabriella.

Nella gouache della serie Black and White Rome, regalata a Scialoja da Willem de Kooning durante il suo soggiorno a Roma fra il 1959 e il 1960, l’ironico ritratto di uno Scialoja dal profilo aguzzo annuncia, in un improbabile inglese, il suo secondo viaggio in America; tra le pennellate nere e incisive si legge: “I am Toti and Gabriella and I are going to New York.”

Completano il nucleo di opere degli “amici americani” una tempera e due sculture (un Mobile e un piccolo Stabile) di Alexander Calder, conosciuto da Scialoja alla metà degli anni Cinquanta.

Mostra a cura di Fabrizio D’Amico

Organizzata da Comune di Ferrara e Ferrara Arte S.p.A

Palazzo dei Diamanti

/ Toti Scialoja

Catalogo

Toti Scialoja